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La storia di un giudice che non si è arreso

La miniserie Paolo Borsellino, diretta da Gianluca Maria Tavarelli e interpretata da Giorgio Tirabassi, non è solo un racconto drammatico degli anni di piombo della lotta antimafia è un viaggio dentro il cuore di un uomo che ha sacrificato tutto, convinto che giustizia e libertà valessero la vita stessa. Ma oltre la storia, la miniserie è una chiamata a tutti noi, un messaggio forte e attuale: la giustizia non si raggiunge guardando da lontano, serve il coraggio di partecipare, di dire no al male, anche a costo di grandi sacrifici.

La miniserie parte dagli anni ‘80, quando Borsellino e Giovanni Falcone, suo amico e collega, tentano l’impossibile: combattere la mafia, un’entità invisibile ma onnipresente, capace di seminare terrore anche dentro le mura di Palazzo della Giustizia. Tavarelli ci fa entrare nelle loro vite con delicatezza, ci mostra il peso delle scelte, la consapevolezza dei pericoli, eppure il rifiuto di arrendersi. Paolo Borsellino non è solo la storia di due uomini, ma di una battaglia per un’Italia migliore, vissuta ogni giorno tra minacce, silenzi omertosi e momenti di disperazione. La frase «Siamo dei morti che camminano» evidenzia la dinamica dei colleghi, uniti dalla paura dinanzi agli attentati organizzati dalla mafia, consapevoli che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo.

Personalmente ciò che mi ha colpito di più è il prezzo umano che Borsellino e la sua famiglia pagano per la sua integrità. Tavarelli ci mostra scene molto intense, come la telefonata anonima della mafia che minaccia i suoi cari, o la scorta sempre presente, come un’ombra, una protezione che diventa anche un peso.

La miniserie ci porta nel vivo del maxi-processo, il primo grande attacco della giustizia contro Cosa Nostra, con oltre 400 arresti: un momento storico in cui si percepisce per la prima volta che «La mafia è in ginocchio». Tuttavia, il trionfo della giustizia viene bruscamente interrotto da uno tra gli attentati più sconvolgenti di quegli anni, la strage di Capaci, in cui Falcone viene ucciso. Da qui, la vita di Borsellino diventa una lunga, consapevole attesa della sua stessa fine «La nostra vita è diventata come un lungo addio».

Eppure, Tavarelli ci lascia con una scena finale che rimane nel cuore, una scena che illumina tutto. Vediamo Borsellino vegliare idealmente su sua figlia durante un esame importante, come a dire che il suo spirito è ancora lì, che il suo sacrificio non è stato vano. È un messaggio potente, che dice a ciascuno di noi che il ricordo di chi ha lottato per la giustizia è vivo, che quei valori non muoiono mai, anzi, ci spingono a non girarci dall’altra parte, «Io non sono un eroe, semplicemente io non giro la testa dall’altra parte, non faccio finta di non vedere».



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