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8 marzo, giornata internazionale della donna: cosa resta?

8 marzo, giornata internazionale della donna: cosa resta?

Di Magliocchetti Matteo, 10 marzo 2025


Anche se già il 28 febbraio 1909, a New York, si scioperò per la morte sul lavoro di alcune operaie in una fabbrica tessile, fu con la conferenza di Copenhagen del 1910 e su proposta della socialdemocratica tedesca Clara Zetkin che si decise di dedicare l’8 marzo alle donne. Q



uesta giornata nasce con l’intento di promuovere la parità di genere, ricordare le conquiste sociali, economiche e politiche delle donne, ma anche denunciare le discriminazioni e le violenze che molte di loro subiscono ancora oggi in molte parti del mondo.





Nel corso della storia, l’8 marzo è stato anche un’occasione per proteste concrete e decisive nel cambiamento sociale. Un esempio significativo è quello del 1917 in Russia, quando migliaia di donne, insieme a operai e soldati, scesero in piazza chiedendo “pane e pace” al regime.


Questa giornata fu ufficialmente riconosciuta dall’ONU nel 1977, quando venne approvata la risoluzione 32/142, invitando tutti gli Stati membri a istituire l’8 marzo come “Giorno delle Nazioni Unite per i Diritti delle Donne e per la Pace Internazionale”.


È proprio nel 1977 che la Giornata Internazionale della Donna perse il suo vero senso e la sua reale utilità. Una giornata quasi priva di significato, un’occasione per saltare la scuola o il lavoro, senza che vi sia una reale presa di coscienza del problema. Perché alla fine della giornata, cosa resta se non solo un mucchio di parole destinate a perdersi?


Ogni anno si assiste alle solite manifestazioni con migliaia di cartelloni che il giorno successivo finiscono nei cassonetti e nel dimenticatoio fino all’anno successivo. Nel frattempo, molti degli studenti che scendono in piazza (ovviamente non tutti), durante il resto dell’anno assumono atteggiamenti sessisti con frasi come: “Guarda quella come ca**o si veste”, “Si coprisse”, “Se la cerca”.


Ma alla fine, cosa cambia davvero? Ogni 8 marzo e 25 novembre si scende in piazza per denunciare le disparità di genere, i politici fanno discorsi inneggianti alla parità, i media riempiono i social e le testate giornalistiche di analisi e riflessioni, con commenti talvolta misogini, talvolta iperbolici. Ma il giorno dopo tutto torna come prima. Si dimentica la ragione per cui questa giornata esiste e il potenziale di cambiamento che potrebbe avere se fosse davvero sfruttata.


Sembra tutto un teatrino. Non che le proteste siano inutili, ma limitarsi a scendere in piazza l’8 marzo e il 25 novembre non è mai bastato e non basterà mai. Cosa resta dell’8 marzo? Perché non scendere in piazza ogni volta che i fatti di cronaca lo richiedono, quando la violenza di genere o i discorsi misogini di personaggi pubblici e politici raggiungono livelli scandalosi, tanto da gettare discredito sulla nostra nazione? Che senso ha manifestare solo due giorni all’anno? E negli altri 363 giorni?





Dal punto di vista legale e burocratico, le donne hanno ottenuto negli anni sempre più diritti (come il diritto di voto, conquistato in Francia nel 1944 e in Italia nel 1946). Tuttavia, nella vita quotidiana, la realtà è ben diversa: le discriminazioni di genere e la violenza sulle donne restano problemi diffusi. E se è vero che anche gli uomini subiscono ingiustizie e violenze di genere, i dati dimostrano che le donne ne sono vittime in misura enormemente superiore.


Paesi dichiaratamente democratici e “avanzati” come Italia, Francia e Stati Uniti dovrebbero garantire la parità di genere come un principio scontato. Eppure, prendendo ad esempio l’Italia, il Global Gender Gap Report 2024 la colloca all’87º posto nella classifica globale sul raggiungimento della parità di genere, con un punteggio del 70,3%. Ha perso otto posizioni rispetto all’anno precedente e ben 24 negli ultimi due anni.


(Nelle prime tre posizioni troviamo l’Islanda con il 93,5%, la Finlandia con il 90% e la Norvegia con l’87,5%. In fondo alla classifica ci sono Marocco, Niger, Algeria, Repubblica Democratica del Congo, Mali, Guinea, Iran, Ciad, Pakistan e Sudan. Gli Stati Uniti e la Francia si collocano rispettivamente al 43º e al 22º posto.)





Uno degli indicatori chiave della parità di genere è l’occupazione. In Italia, il tasso di impiego femminile si ferma al 52,5%, quasi 18 punti percentuali in meno rispetto a quello maschile (70,4%). Questo dato colloca il Paese tra gli ultimi in Europa, ben al di sotto della media UE del 70,2%. Inoltre, il tasso di disoccupazione femminile (8,4%) è quasi il doppio di quello maschile (4,9%). Eppure, le politiche per affrontare questa disparità rimangono inadeguate o inesistenti.


La premier Giorgia Meloni per la Giornata Internazionale della Donna di quest’anno ha pronunciato e annunciato quanto segue:

 «Il Consiglio dei ministri ha varato un decreto legge estremamente significativo, che introduce nel nostro ordinamento il delitto di femminicidio come reato autonomo, sanzionandolo con l’ergastolo, e prevede aggravanti e aumenti di pena per i reati di maltrattamenti personali, stalking, violenza sessuale e revenge porn. Norme che considero molto importanti e che abbiamo fortemente voluto per dare una sferzata nella lotta a questa intollerabile piaga».

La legge in questione dice:

«Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l'esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l'espressione della sua personalità, è punito con l'ergastolo. Fuori dei casi di cui al primo periodo, si applica l'articolo 575» del codic.e penale, che prevede una pena non inferiore a 21 anni».


Finalmente “una svolta epocale”, dice il ministro della Giustizia Carlo Nordio. È vero, è una svolta epocale, e dobbiamo finalmente esserne felici e andarne fieri, ma in che modo queste parole possono essere pronunciate e associate a un ministro della “giustizia” quando di equo questa legge non ha nulla, in quanto porterebbe solamente a ulteriori discriminazioni di genere?


Chi assicura parità, equità e nessun errore di analisi nei processi per possibili violenze di genere? Chi assicura che questa legge verrà applicata sempre e equamente, anche nel caso in cui a violarla siano i figli di politici (basti pensare al caso del figlio di Ignazio La Russa, presidente del Senato)? Gli interrogativi su una legge non chiara sono tanti, e meno male che non l’ha proposta Salvini!


Dovremmo farci tutti un esame di coscienza: perché, nonostante dal 1969 la Corte abbia abolito l’adulterio come reato, ancora oggi l’Italia è uno dei paesi europei arretrati dal punto di vista della parità di genere? Forse il problema non è solo burocratico, ma culturale?


Anche se vedere marcire in prigione stupratori e assassini ci rende tutti più felici, la verità è che, se vogliamo davvero combattere la violenza di genere e promuovere la parità, non basteranno nuove leggi. Servono azioni concrete come:

Introduzione dell’educazione sessuale e affettiva nelle scuole, perché siamo noi giovani che dobbiamo essere i primi a essere sensibilizzati.

Maggiori investimenti in asili nido e supporto per le madri lavoratrici, perché bisogna sostenere chi ha una famiglia e al contempo vuole lavorare.

Rispetto effettivo del diritto all’aborto, perché il corpo è di chi lo possiede, di nessun altro.

Più consultori e centri antiviolenza, perché a volte esprimere il proprio dolore e le proprie fragilità genera vergogna e senso di vulnerabilità.

Maggiore responsabilità da parte dei media nel contrastare la misoginia, perché è proprio qui che nasce e cresce la mentalità patriarcale.

Un sistema giudiziario che promuova l’autonomia economica delle donne, senza incentivare la dipendenza economica dal coniuge, quindi rivedendo la legge sul divorzio. Perché l’autonomia è il primo passo verso la libertà.


Alla fine, cosa resterà di questa giornata? Quando se ne riparlerà? Il 25 novembre?


Come ha detto l’onorevole Gilda Sportiello del Movimento 5 Stelle:

“Tenetevi le vostre mimose! Dateci la parità sul lavoro.”

Che l’8 marzo non sia solo un simbolo, ma un impegno che duri tutto l’anno.




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