di Chiara Santoro - IV liceo
Secondo la critica dell’Ottocento il pessimismo storico e il pessimismo cosmico leopardiano sono la conseguenza di un pessimismo individuale. La sua «vita strozzata», così definita da Benedetto Croce, ovvero la condizione materiale, la monotonia della vita e la mancanza di relazioni umane, lo conduce ad una visione pessimistica della vita. In realtà Leopardi in vita vuole già mettere a tacere queste critiche e lo fa con La lettera a De Sinner in cui afferma che è errato attribuire la sua «filosofia disperata» ai suoi malanni. Lui stesso si ritiene «coraggioso», poiché non si è arreso di fronte ai suoi limiti, consolandosi nelle «frivole speranze» o rifugiandosi in una «vile rassegnazione». Coerente con le parole del poeta, la critica novecentesca di Timpanaro e Luporini definiscono il suo pessimismo come eroico. Dai malesseri, che sono stati per lui come una prigione, ne è emerso un animo grandioso. Infatti Timpanaro nel brano Leopardi “materialista” illustra come la «Weltangshauung leoprdiana», ovvero la sua presa di coscienza «precoce e acuta», nasce grazie alla sua malattia, vista come un grande «strumento conoscitivo».
Dice D’Avenia nel suo libro L’arte di essere fragili: come Giacomo Leopardi può salvarci la vita: «l’arte da imparare in questa vita non è quella di essere invincibili e perfetti, ma quella di saper essere come si è, invincibilmente fragili e imperfetti.». Giacomo Leopardi è stato un uomo fragile che ha cercato di vivere la sua vita con la consapevolezza e l’accettazione dei propri limiti.
Era consapevole dell’impossibilità dell’uomo ad arrivare alla felicità, al piacere. Le cause di questa osservazione evolvono con il passare degli anni, fino ad arrivare a fare «rea d’ogni cosa la natura». La natura è, come spiega nel Dialogo della Natura e di un Islandese, è una forza in «perpetuo circuito di produzione e distruzione» che rende impossibile il raggiungimento della felicità.
Spiega ancora D’Avenia nel suo libro che «la speranza è desiderio, parola che dal latino de-sidera, cioè distanza dalle stelle, la sua mancanza è un dis-astro, assenza di stelle.» Quindi se l’uomo non ha alcuna speranza di vivere in maniera felice, perché vivere?
Leopardi non considera il suicidio come un mezzo di liberazione, anzi lo condanna. Nel Dialogo di Plotino e di Porfinio, qualifica il suicidio come una cosa che va contro la natura umana.
Gli uomini sono chiamati ad unirsi gli uni e gli altri di fronte alla loro condizione di «souffrance»: il suo messaggio è umanitario, infatti «non è conducente alla misantropia». Non è quello di arrendersi di fronte alla condizione di infelicità che ci caratterizza come uomini, ma proprio l’esatto contrario. È necessario non lasciarsi sopraffare dalla disperazione, preferendo delle scorciatoie alla vita, ma perseverare e non far spegnere nel nostro cuore la speranza di felicità, la speranza di infinito.
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