top of page

Sulla Meccanica della Manipolazione del Pensiero e le Tecniche di Studio

Sulla Meccanica della Manipolazione del Pensiero e le Tecniche di Studio

Matheus Cappelli IV-Liceo


Incipit

Questo testo mira a mettere in chiaro delle riflessioni effettuate in base sperimentale (sia con alcuni esperimenti mentali, sia con esperimenti reali) la natura meccanica e razionale dello studio.


L'obiettivo è di aver abilitato il lettore, entro la fine di questo testo, di autoanalizzarsi e di proporre un approccio diverso al meccanismo dei propri pensieri. Con questa nuova sensibilità, speriamo di riuscire a lavorare insieme nello sviluppo di metodi di studio il più efficaci possibili, tali da renderci capaci di autoistruirci alla maestria gnoseologica governata dalla nostra più pura ed essenziale curiosità.


Se entro la fine di questa lettura avrete almeno riflettuto sulla possibilità di automigliorarvi in quanto esseri pensanti, avremo compiuto il nostro obiettivo.



Premessa

Dobbiamo innanzitutto partire da una premessa cardinale: lo studio è una tecnica migliorabile e, dunque, modificabile in quanto algoritmo quantificabile cioè matematicamente descrivibile.


Dato ciò, lo scopo di studiare lo studio è quello di trovare il miglior metodo per cui si riesce a comprendere il meglio possibile una certa quantità di materiale nel minor tempo possibile.

Perché questa lettura venga al suo meglio compresa invitiamo il lettore a saper esternalizzarsi dal suo proprio pensiero e di fare lo sforzo di autonomamente riconoscere, e di dunque analizzare, i propri pensieri tale che possiate fare al meglio una replica degli esperimenti mentali che saranno presi in considerazione.


Che cos'è lo studio?

È necessario che sia chiara e condivisa che cosa si intende per studio.

Per rispondere alla domanda di che cosa sia, non c'è azione migliore che quella di simulare di studiare qualcosa di cui non sappiamo assolutamente nulla.

Prima dello studio stesso, dobbiamo sapere che cos'è che vogliamo studiare, per certo, dunque, si ha una fase iniziale di categorizzazione della materia desiderata.


E.G.

“Voglio studiare la matematica” è una frase troppo ampia, dunque, innanzitutto, definiremo una parte ben definita. Così facendo ci mettiamo in posizione di avere un obiettivo tangibile il che ci permette di misurare le nostre conoscenze al riguardo.


“Voglio studiare le equazioni di secondo grado” è un esempio valido.

Posto quest’obiettivo inizia la seconda fase, cioè, la misura della nostra propria conoscenza al riguardo e dunque l’acquisizione del “materiale mancante”.


L’esecuzione di questa seconda fase è propriamente l’essenza dello studio stesso poiché si tratta di un processo dialogico tra l'individuo e l’ente studiato. L'individuo è colui che inizia questo processo ponendo delle domande, da cui riceverà risposta dall’ente in modo del tutto implicito (ed è qua laddove lavoreremo di più) e da cui acquisirà più informazioni per porre domande sempre e sempre più specifiche, fino alla comprensione totale dell’ente in questione.


E.G.

Dinanzi alla teoria costituente delle equazioni di secondo grado la domanda iniziale sarebbe “Che cosa sono?”. Qua ne prendiamo profitto anche per definire che cosa si intende per ente.


Idealmente, l'ente è la materia nella sua più pura essenza. Cioè, nel nostro caso, sarebbero “le equazioni di secondo grado” propriamente come concetto. Siccome non è possibile comunicare con queste (o almeno, come tratteremo, non inizialmente) spesso si utilizza un tramite.


Il tramite può essere qualunque fonte che vi permetta di essere in grado di comunicare con l’ente in questione. Esempi sono libri, professori, media oppure esperienza diretta.


Attraverso il tramite acquisite le conoscenze necessarie per continuare questo processo dialogico, ponendo domande sempre più precise, al fine della comprensione.


E.G.

“Dato che le equazioni di secondo grado sono polinomi il cui termine incognito di grado maggiore equivalga a 2, che cosa rappresenta l'equazione?”


Che cos'è la comprensione?

Una volta messo in chiaro la natura dialogica dello studio, viene naturale chiedersi perché porre queste domande, e a che fine, sia per la loro formulazione, sia per il fine dello studio stesso.


Per capire meglio la causa della comprensione e che cosa sia effettivamente, osserviamo i suoi effetti.


Ne comporta che, una volta compresa una cosa, essa sia ricostruibile oppure replicabile oppure eseguibile e contemporaneamente dimostrabile e spiegabile. Senza almeno una coppia di queste proprietà, spesso, non si ha veramente capito l’ente in questione ed è quella la chiave per accedere alla maestria di esso.


All’assenza di uno, rendono obsoleti l’altro, tale da essere meglio una conoscenza piuttosto che una vera comprensione.


Stabilito ciò, rimane evidente che per accedervi lo si faccia tramite lo studio, ed è precisamente nella fase di trasformazione tra studio a comprensione in cui sorgono i maggiori problemi.


Lo studio deve mirare a colmare la coppia degli effetti della comprensione, ed è quella la misura della nostra incomprensione rispetto all'ente desiderato.


Chiameremo questa coppia di effetti le “condizioni di comprensione”.


Spesso però ci si confonde tra vera comprensione e comprensione apparente e accade per vari motivi di processo erroneo durante lo studio.


Studiare non è ripetere. Non è nemmeno trascrivere. Studiare è costruire in vista della comprensione . E in questa costruzione, ogni persona è architetto, ingegnere e muratore del proprio pensiero. Quello che vogliamo proporre non è un metodo da seguire come un catechismo, ma una visione, una lente con cui osservare ciò che facciamo ogni volta che apriamo un libro, ascoltiamo una lezione o ci perdiamo in una riflessione solitaria.


Comprendere e aver compreso sono quindi, rispettivamente, trovare modi per rispondere ed agire per colmare la coppia comprensiva ed essere in grado di colmarla.


Il pensiero mirato alla comprensione

Evidentemente, non soluziona nulla cambiare il fine, posto che il nostro tramite ci dia comunque le stesse informazioni, bensì le nostre domande cambino e vi sia una geometria di pensiero nuova.


Il facilitatore a questo processo è il cambiamento di pensiero.


Definiremo qui il pensiero come la giunzione di vari idee.


Le idee sono, invece, la rappresentazione mentale di enti.


Gli enti sono ogni singolo oggetto, concetto oppure altra idea o pensiero, presa come referenza per sviluppare un espressione logica oppure farne riferimento che legano la concezione trasformata dal pensiero intrinseco preso dalla realtà percepita dell’osservatore all’ente stesso.


Chiameremo questo riferimento trasformato “ente virtuale”.


Il pensiero ci permette di fare conclusioni logiche (se ben strutturato) e di dare razionalità alla realtà circostante in base a questi.


Attraverso una catena di pensieri, otteniamo diversi tipi di razionalità.

La razionalità è, per definizione << La qualità di chi è provvisto di ragione ( la r. è l'essenza dell'uomo ) o la rispondenza a un ordine o a un criterio razionale ( r. di un giudizio, di un arredamento ). >>.


Nel caso in cui si parla di pensieri, è appunto l'ordine generale a cui ammonta il bilancio di questi pensieri. Nel momento in cui non ci siano contraddizioni che mettano il sistema razionalistico in crisi, questi sono idonei ad esso.


In vista del fatto che è necessario un sistema razionalistico per pensare, il pensiero, cioè, il pezzo costituente primordiale di questo sistema, gioca un ruolo fondamentale.


Il pensiero ci permette di costruire razionalmente pezzi di informazione utili su un ente che accrescono la nostra comprensione su di esso.


Il pensiero mirato, dunque, alla comprensione deve seguire una razionalità che lo permetta di capire se è un pensiero idoneo al fine di averlo veramente compreso e che vada a montare o accrescere il necessario nelle condizioni di comprensione. Se la razionalità sottostante lo permette, in quanto idoneo, il pensiero è valido e sarà inevitabilmente utile a colmare le condizioni di comprensione.


La razionalità mirata alla comprensione

Per essere in grado di quindi sapere che tipo di pensiero subentri nel campo della razionalità comprensiva, necessità che questa venga saldamente stabilita.


La razionalità si poggia normalmente su un primo pensiero “cardine” che serve a indirizzare tutti gli altri prossimi pensieri.


Il pensiero cardine più generale che vi permette di mantenere una mente aperta per comprendere al più ampiamente diversi concetti è il seguente:

“Ogni ente è comprensibile attraverso una dissezione logica e descrivibile attraverso una catena di pensiero che sia razionale”.


Una riformulazione più pratica è che tutto è comprensibile razionalmente e attraverso una catena di pensiero corretta.


Posto ciò che abbiamo definito sulla razionalità e sul sistema di pensiero viene naturale notare che dunque questo pensiero sia una referenza ad una versione di sé stesso finale (<<...che sia razionale>>, cioè che appartenga a questa razionalità creata appunto da questo pensiero cardine) al momento proprio della sua “nascita”.


È proprio questo il punto di questo pensiero cardine, ci permette di fare pensieri mirati alla comprensione e al completamento di questa razionalità nata con il fine di essere completa in quanto possa raggruppare qualunque tipo di scibile.


In vista di questo pensiero cardine, la strada alla comprensione ad un ente parte dalla sua dissezione logica in ricerca di una catena logica che ci porti a completare le condizioni di comprensione comunque mantenendoci alla razionalità.


In altre parole, non esistono enti che non possano non essere in qualche modo rotti in “pensieri” più piccoli che li costituiscono e che li modellizzano al completo tale da riuscire a mantenersi a questi due criteri.


Alla vista di questo pensiero cardine e, dunque, sistema di razionalità vi può subentrare anche lo studio del pensiero in quanto ente. A questo, ho già tentato di rispondere, e a chi è interessato a saperne di più può leggere questo documento.


Il principio dell’ansatz

È molto più facile che, a partire da un’idea data, si vada ad aggiungere e smentire quello che si pensa di sapere contro quello che è veramente.


Per dunque facilitare lo studio e giungere ad un approccio iterativo ma comprensivamente rapido nelle prime tappe, fino a quando non giunge uno stato di raffinamento del sapere, in cui poi si rallenta, utilizzeremo “il principio dell’ansatz”.


L’ansatz è << Ansatz 〈ansàz〉 [s.m. ted. "principio"] [ANM] [MCQ] Termine usato talora, a scopo rafforzativo, per indicare un'ipotesi o un principio >>. In termini pratici si tratta di un’ipotesi informata su qualcosa.


L’ansatz è dunque fondamentale per iniziare (almeno, in buona marcia e con direzione) il dialogo dello studio.


Dato un ente preciso, si parte dalla categorizzazione e da una domanda cardine (il nostro ansatz). EG.

Voglio studiare la chimica inorganica. Partendo completamente da zero, posso provare a dire che la chimica inorganica si tratti di tutte le interazioni tra composti elementari per formare composti più complessi. Questa affermazione è il mio ansatz, ma adesso che ho questo pezzo di informazione, posso partire da tutto ciò che ne comporta per capire se è o non è vero.


L’ansatz ci permette di stabilire un pensiero cardine temporaneo, di cui la veridicità non importa, tale che venga trattato come temporaneo e presto sostituito dai risultati del processo dialogico dello studio.


Lo si può immaginare come lo spunto iniziale dell’intero processo dialogico o come una struttura mentale temporanea per testare una nuova possibile struttura di pensiero.


La geometria reticolare, pluridimensionale e caratteristica del pensiero

Per meglio comprendere questo nuovo sistema di pensiero e studio, si può visualizzare questa nuova geometria formatasi dal pensiero cardine che si lega ad altri pensieri.


Chiameremo queste strutture di pensiero reti di comprensione.


Le reti di comprensione si riferiscono sempre ad un ente. Questo ente è a che cosa si sta riferendo la struttura, che, per essere completa, deve essere in grado di soddisfare le condizioni di comprensione.


Le reti originano sempre da un pensiero cardine, che è il punto di spunto di qualsiasi rete, e si espandono via via che il processo dialogico e la tecnica dell’ansatz lo permettono.


Diversi pensieri che si legano allo stesso cardine possono avere dimensioni diverse e, poggiarsi dunque su dimensionalità diverse, tale che non possano essere trattati come uguali.


La dimensione del pensiero si tratta della somma delle diverse logiche sottostanti necessarie per poterlo comprendere. La dimensionalità, dunque, è l’insieme delle logiche di diversa natura che devono coesistere al fine di permettere che questo pensiero possa esistere.


Due pensieri, dunque, possono avere una o più dimensionalità in comune e dimensioni diverse.


La forma geometrica della rete di comprensione è multidimensionale e dunque complessa da dimostrare quando vi sono molte dimensioni in gioco. Visualizziamo, per semplicità, una rete con tre dimensionalità e due pensieri.

Illustrazione di una rete di comprensione con le sue dimensionalità illustrate
Illustrazione di una rete di comprensione con le sue dimensionalità illustrate

In questa rete, il pensiero P1 e P2 hanno una dimensionalità in comune (la D2) e dimensioni uguali (2 dimensioni).


Ma, che cosa rappresentano le dimensioni e le dimensionalità?

Le dimensioni rappresentano i diversi punti di vista e approcci che si possono intraprendere ad uno stesso pensiero, le dimensionalità le esatte “aree”.


E.G.

Supponiamo che l’ente sia la bomba atomica e il pensiero cardine è “La fisica nucleare ci permette di estrarre ingenti quantità di energia da piccolissime quantità di massa grazie alla formula di Einstein, E = mc²”.

Ora, supponiamo che ci sia un pensiero che descriva la bomba nucleare Little Boy e un altro che descriva la Fat Man, usate negli bombardamenti di Nagasaki e Hiroshima durante la seconda guerra mondiale. Da un punto di vista fisico, è stata l’applicazione di un fenomeno che avrebbe cambiato tutta la ricerca scientifica; da un punto di vista civico, invece, è stato il motivo delle morti di innumerevoli civili. Questi due punti di vista dimostrano che per uno stesso pensiero esistono due dimensionalità ben diverse che lo caratterizzano in modo completamente diverso.


Questo tipo di visualizzazione non solo ci permette di fare una vera e propria “mappa mentale” che non solo mostri i diversi legami tra idee e il pensiero cardine. Questo tipo di nozione e rappresentazione aggiuntiva porta il livello della comprensione del cardine della mappa, perché ci permette di meglio organizzare i propri pensieri anche a livello concettuale, assorbendo anche la complessità dei diversi punti di vista e non solo limitandosi a lasciare al lettore la deduzione di questi.



Immagine illustrativa di una semplice rete di pensiero adimensionale
Immagine illustrativa di una semplice rete di pensiero adimensionale

Immergendosi in questo nuovo tipo di visualizzazione, notiamo anche un fatto fondamentale: la impossibilità della certezza delle vere dimensioni e le vere dimensionalità in modo oggettivo.


Dal punto di vista da una qualsiasi dimensionalità, non c’è modo di ben capire se oltre a quella in cui si poggia attualmente ci siano delle altre.


La ricerca per trovare tutte le dimensionalità di un pensiero si dimostra ben presto sfuggente, però, poiché ogni singolo pensiero ha qualche tipo di influenza (anche se estremamente piccola) in ogni dimensionalità.


Virtualmente, ogni pensiero e ogni dimensionalità sono inevitabilmente connessi.


Normalmente, dunque, si ricercano i soli riscontri che abbiano un utilizzo pratico oppure che siano di interesse.


Non si devono confondere, però, le diverse dimensionalità di un pensiero con le similitudini possibilmente riscontrabili nelle sue catene logiche con altri pensieri. La dimensionalità racchiude una logica e obiettivo ben definito e non si tratta di una mera uguaglianza parziale.


Dal punto di vista di similitudine, le dimensionalità sono insiemi che racchiudono sistemi logici che operano per lo stesso fine.



La natura relativa, interconnettibile e fondamentale della domanda “perché?”

Oltre al principio dell'ansatz, c’è un altro strumento che permette di effettuare un'analisi più profonda per la nostra rete di comprensione: la domanda “perché?”


La domanda ci forza a rispondere in ricerca della causa per capire l’effetto, il che ci fa pensare in modo critico ed evitare di fare il processo inverso che spesso ci porta a falsi positivi.


La differenza fondamentale che c’è tra il principio dell’ansatz e il perché è il loro utilizzo, e che cosa la loro risposta ci porta. Il perché è uno strumento di navigazione, poiché ci porta sempre ad un pensiero che descrive la causa del pensiero d’effetto.




Illustrazione di una catena dell’effetto del perché
Illustrazione di una catena dell’effetto del perché

Laddove il pensiero in cui si sta riesca a trovare un pensiero di causa, la domanda perché è la strada diretta che conduce da questo pensiero all’altro.

Questa catena, però, non è infinita, e, quando si arriva ad un pensiero il cui pensiero di causa non è deducibile oppure non è stato ancora concepito da alcuna fonte mediatrice dell’ente, è in questo caso che il principio dell’ansatz è l’unico modo per tentare di trovare il pensiero di causa.


Il principio dell’ansatz propone un ipotesi, cioè va a provare a rispondere laddove la risposta non c’è ancora. Il perché, invece, impone la ricerca al pensiero di causa, che può o non può essere ancora stato concepito.


Dunque, il perché ci impone la ricerca della catena logica in reverso, cioè, non i pensieri che si possono formare da esso ma i pensieri che lo hanno formato. Questa è la sua natura interconnettibile. Il perché ci abilita a riuscire a legare pensieri diversi, ma connessi, tra di loro.


Ciò non vuol dire, però, che legando pensieri tra di loro sempre ritroveremo che il pensiero di causa del pensiero in questione faccia effettivamente parte dello stesso pensiero cardine di cui ne fa parte il pensiero di effetto. È per questo che il perché non va chiesto a vanvera, ma bensì in modo consapevole del pensiero cardine in cui si ritrova il pensiero di effetto a cui è stato effettuato l’analisi.


Attraverso il perché e perdendosi nella vasta catena di legami ci sono ancora due proprietà di cui si deve parlare.


Il perché può rendere qualsiasi pensiero razionale e valido in vista di una rete di comprensione avente il proprio pensiero cardine in una nuova rete di comprensione originatasi dal pensiero in questione.


E.G.

Prendiamo come pensiero cardine il seguente: “Michael Faraday ci ha proposto che ogni particella dotata una carica ha un campo magnetico” e leghiamolo al pensiero seguente: “Il flusso del campo magnetico su una superficie elettricamente conducibile produce corrente con differenza di potenziale inversa”.

Se io adesso chiedo il perché questa cosa avviene per questo pensiero, la risposta non si ritrova più legata direttamente al pensiero cardine originale.

“L’effetto della generazione della corrente è a causa della induzione di un campo elettrico grazie alla variazione del campo magnetico che a volta sua esercita la forza di lorentz sulle particelle cariche” è il pensiero di causa, che, non si lega al pensiero cardine iniziale.


Abbiamo invece che il pensiero che è legato al nostro pensiero cardine iniziale sia come il pensiero cardine di questo pensiero di causa.



Immagine illustrativa dell’effetto del perché
Immagine illustrativa dell’effetto del perché

Dall’immagine possiamo vedere che sia R1 che R2 possono essere viste come due reti di comprensione completamente individuali. Può accadere più raramente, che il pensiero cardine possa essere direttamente collegabile al pensiero di causa.


L’ultima cosa di cui si deve tenere conto per saper utilizzare il perché in modo consapevole ed efficace è la dimensionalità in cui si analizza.


Il pensiero causa ottenuto dal pensiero analizzato sarà sempre nella stessa dimensionalità in cui si trova il pensiero in questione oppure vi si risiede dentro.


Ciò accade perché una risposta con dimensionalità diversa da quella in cui si intraprende l’analisi risulta essere incoerente con la natura del pensiero di effetto. Se il pensiero di causa si trova in una dimensionalità diversa laddove il pensiero di effetto non ne fa parte, è illogico pensare che ci sia un legame tra i due poiché per definizione si basano su logiche diverse e il salto dimensionale (cioè di sistema di logica) è adimensionale nella misura in cui non c’è un legame esistente tra i due che si basi su una logica.



Immagine illustrativa del collegamento adimensionale
Immagine illustrativa del collegamento adimensionale

Questo effetto adimensionale non vuole dire che non possa essere eseguito ma bensì che non ci sia un ponte che leghi le due dimensioni insieme in modo logico e razionale.


L’illogicità e l’irrazionalità esistono, ma sono caotiche dal momento in cui non vi risiede alcuna logica che li governi. La comprensione è impossibile poiché non vi si può stabilire le sue condizioni in modo univoco e oggettivamente interpretabile.


Detto ciò, per un perché che sia logico, effettivo e valido, deve trovarsi nelle condizioni appena descritte. Chiameremo ciò le condizioni del perché.



La semplificazione della dimensionalità del pensiero cardine

Nell’immagine illustrativa della situazione in questione e anche nelle precedenti si nota che il pensiero cardine si trova nello spazio adimensionale e non vi è stato fatto alcun riferimento alla dimensionalità di quest’ultimo.


Risulterebbe incoerente permettere che alcun pensiero razionale sia adimensionale per i motivi descritti nel paragrafo del perché.


Il pensiero cardine ha una sua dimensionalità come qualunque altro pensiero. Come abbiamo visto nella sezione della geometria delle reti di comprensione, virtualmente ogni pensiero è infinitamente dimensionale nella misura in cui tutto ha un effetto su ogni altro anche se infinitamente piccolo.

La risoluzione di questo problema, come detto nell’apposito paragrafo è di considerare soltanto la parte che è maggiormente influente e che sia di interesse per completare le condizioni di comprensione dell’ente.


Siccome il pensiero cardine è il punto di origine per la struttura della rete di comprensione e indipendentemente della dimensionalità in cui si trova, la struttura rimane completamente immutata, possiamo, per semplicità durante la fase di costruzione dialogica della struttura, porlo nello spazio adimensionale.


La sua dimensionalità sarà di utilizzo pratico durante la costruzione solamente quando verrà utilizzato come un pensiero che forma una rete di comprensione diversa da quella che crea.


La natura e la meccanica della maestria di un ente

Ora che sappiamo che cos’è una rete di comprensione, la sua geometria costituente e le sue condizioni, parleremo di che cosa vuole dire aver padroneggiato un’ente.


Definiamo la padronanza di un ente come la capacità di legare reti di comprensione di enti diversi tra di loro tale da poter utilizzare la nuova rete combinata come se derivasse da un ente nuovo.


Praticamente, ciò significa che dalla comprensione delle reti in questione si origina un ente completamente nuovo che può essere un oggetto, come una forza o un sistema o qualunque cosa.


Questo potere di creazione richiede aver compreso la rete tale da saper legare la sua geometria in modo razionale con un’altra rete per uscirne fuori una geometria completamente nuova che originerebbe da un ente mai visto prima.


La padronanza è la capacità di creare enti da reti di pensiero.



Immagine illustrativa della padronanza
Immagine illustrativa della padronanza

Nella visione del nuovo ente, si nota che la struttura si rende più complessa, poiché inizialmente, subito dopo la congiunzione delle due reti, ci sono due pensieri cardine.


Tratteremo della semplificazione di queste reti e lo sviluppo della padronanza nella compressione del pensiero e l'andamento evoluzionario della conoscenza .


La compressione del pensiero e le sue migliori forme praticabili

Evidentemente, dato che la forma della rete di comprensione si tratta di una rete che si espande in funzione di pensieri, possiamo ritrovare forme più vaste e forme più piccole, ma qual è, effettivamente, la miglior forma per la rete?


Indubbiamente, supponiamo che la rete in questione abbia, innanzitutto, colmato le condizioni di comprensione. Per rispondere alla domanda della forma migliore dobbiamo dapprima stabilire quali sono le qualità di una buona rete e quali sono le proprietà che essa ci apporta. Una buona rete di comprensione mi dovrebbe permettere di prendere e avere qualunque tipo di informazione che mi serva sull’ente nel tempo più rapido possibile e nella forma più adeguata possibile. Siccome la rete si tratta di diverse connessioni partendo da un pensiero cardine, il ritrovo di questo pensiero si tratta della navigazione a partire da questo pensiero fino al pensiero di destinazione.


Evidentemente, i meno passaggi necessari per giungere alla destinazione e più fluida è la navigazione. Ebbene, però, sintetizzare troppo i pensieri risulta avere troppa informazione impacchettata in un unico pensiero che può risultare troppo faticoso da smontare e cercare soltanto la parte necessaria.


La forma che risolve entrambi i problemi in un’unica mossa è la seguente: la forma della rete dovrebbe seguire un ordine di distanza dal pensiero cardine. Ogni nesso aggiuntivo che lega un pensiero ad un altro e accresce il numero di salti necessari dal pensiero cardine dovrebbe sottostare ad una sfumatura sempre più specifica per tutti i pensieri allo stesso livello di distanza.

Ciò vuol dire che diversi livelli di distanza coprono parti specifiche che man mano diventano sempre meno dense di pensiero a causa della loro specificità unica che li sposta a quel livello di distanza dal pensiero cardine.


Questa struttura permette la rapidità e la suddivisione di pensiero arbitraria poiché ogni livello di distanza rappresenta un salto di specificità che raggruppa al meglio possibile le informazioni più generiche per prime e le meno utilizzate o sapute per dopo.



Immagine illustrativa di una mappa organizzata del pensiero di un ente
Immagine illustrativa di una mappa organizzata del pensiero di un ente

Nell’immagine illustrativa possiamo vedere un esempio di una mappa mentale che tiene conto anche della geometria organizzativa di una rete efficace. Come si può vedere ci sono alcune peculiarità.


I pensieri gialli hanno un unico salto ma una specificità diversa della loro distanza. I pensieri verdi, invece, hanno la stessa situazione ma risultano da un salto da un pensiero concorde alla sua distanza.


Questi pensieri sono stati posti per dimostrare che l'organizzazione della rete non si tratta di una regola stretta che non permette casi che ci danno comunque la stessa ottimizzazione naturalmente.


La compressione della rete non deve cambiare la sua struttura in modo che i pensieri devono cambiare per situarsi meglio ma bensì organizzarla tale da essere più facilmente comprensibile. I pensieri hanno una loro logica che deve essere lasciata così come si è dimostrata e plasmarli in vista di una ottimizzazione postera rovina la loro essenza.


Comprimere il pensiero (cioè, non colloquialmente noto come la rete di comprensione di un ente in questo documento), dunque, si tratta di rimontare la struttura in modo che sia organizzata geometricamente in base alla sua specificità, utilizzo e importanza.



L’andamento evolutivo dello sviluppo della conoscenza

Come descritto prima, la rete di comprensione cambia e si organizza in base alla specificità, utilizzo e importanza, dato che questa colmi le condizioni di comprensione.


Durante il processo dialogico, però, ci si può imbattere (e all’inizio spesso accadrà così) in pensieri che non siano collegabili da nessuna parte ma dovrebbero essere viabili.


In questi casi, la struttura non è adeguata.


Il pensiero che non si lega, dato che sia viabile e faccia effettivamente parte dell’ente e sia stato ottenuto in modo inequivocabile dal processo dialogico dello studio, non può essere lasciato fuori. Nel caso lo sia, la rete è incompleta in vista dell’ente originale e l’ente che si studia ora con questa nuova rete si riferisce ad un altro che abbia queste specifiche caratteristiche.


La soluzione a ciò è quella di “evolvere” la rete. L’errore non sta nei pensieri, ma bensì nel pensiero cardine scelto. Essendo lui il punto di origine che permette a questi pensieri di legarsi tra di loro in modo logico, cambiandolo in vista dell’informazione nuova oppure trovando un pensiero cardine completamente nuovo, la struttura ora si rinnova tale che possa accettare tutti i pensieri riferiti all’ente.


Chiamiamo questo processo l’evoluzione della rete di comprensione.


Il termine evoluzione viene utilizzato poiché si tratta comunque di una rete di comprensione che si riferisce allo stesso ente ma è cambiata la sua parte più caratteristica e fondamentale: il suo pensiero cardine.


Normalmente, un passo evolutivo nel processo di creazione della rete di comprensione risulta in un cambiamento totale della logica intrapresa nella sua comprensione da parte dell’osservatore a causa stesso della definizione della rete stessa e che cosa ne comporta all’osservatore.


L’evoluzione delle reti comporta anche un cambiamento fra i diversi legami, il che, a sua volta, rende l'ottimizzazione della compressione completamente diversa.


Una rete si può evolvere manualmente senza aver bisogno di una nuova informazione che la costringi a cambiarsi a fine e patto che la sua geometria si semplifichi e le condizioni e informazioni rimangano colmate.


Il dubbio cartesiano come strumento di controllo della falsa conoscenza

Ora che abbiamo parlato di tutte le proprietà e tutti i processi legati alle reti di comprensione possiamo parlare di un approccio adeguato a questo tipo di manipolazione del pensiero.


Il pensiero, come già descritto precedentemente, ha molte forme e molte proprietà che lo rendono difficilmente universalmente oggettivo e serve che siano dati degli presupposti perché questi lo siano. Questa natura facilmente illusoria spesso ci fa dimenticare che noi stessi ogni volta che pensiamo ad un qualsiasi pensiero ci ritroviamo in un ambiente mentale che naturalmente ci sottopone ad una serie di presupposti che lo rendono tale come lo pensiamo. L’atteggiamento più adeguato in vista di questa natura molteplice e relativa del pensiero è la concezione del “dubbio Cartesiano”. Nella sua più pura essenza, questo atteggiamento è perfetto per assicurarsi delle condizioni di comprensione siccome necessita la più esplicita dimostrazione nata dal proprio pensiero (sebbene qua l’unico presupposto che prendiamo in considerazione sia che l’osservatore sia onesto e non dia per buono una qualsiasi informazione prima di risolverla in vista del processo dialogico dello studio e più in avanti della tecnica dello "Sturm und Drang" assistito dalla necessità di contraddirsi e dimostrarsi sbagliati) ma siccome questo intero sistema di pensiero si tratta di un miscuglio tra pensieri propri e assorbimento di informazioni esterne, il punto chiave che si deve trarre dall’atteggiamento è il dubbio sulla veridicità dell’informazione.


In un modo scientifico, data una qualsiasi informazione che non sia stata concepita dall’osservatore, imperativamente sussiste una relazione di fiducia con l’informazione stessa. Siccome il sistema in questione mira alla vera comprensione e la più pura essenza dell’ente, l’osservatore, sia per una questione di curiosità e di necessità di comprensione per veramente poter colmare le condizioni di comprensione è dovuto a verificare sperimentalmente che l’informazione in questione sia vera.


Non sempre è il caso che l’esperimento per ottenere la conferma che questa si tratti effettivamente di un’informazione valida sia eseguibile, sia per la mancanza di strumentazione, luogo adeguato, materiale oppure pericolosità dell’esperimento in caso di mancata attenzione.


In quei casi comunque si deve prendere misure di precauzione e ricordarsi che tutte le informazioni dedotte da quest’ultima siano sempre e solamente in ipotesi che questa sia vera.


Può risultare inizialmente che sia un approccio troppo serio e che dia troppa importanza a minimi dettagli, ma, come descritto prima, i pensieri e gli enti che ne possono risultare sono matematicamente infiniti, e dunque, anche il minimo dettaglio cambia l’ente che si studia.


Per molti casi, una sottile differenza che non tolga il fatto che le proprietà maggiori dell’ente in questione rimangono immutate, anche in vista di una informazione sbagliata oppure parziale, risulta essere una soluzione più che valida.


Detto ciò però non vuol dire che l’osservatore si debba accontentare di tutto. L’approccio Cartesiano sarebbe quello più teoricamente valido nella sua intensità più forte.


Nonostante ciò, per motivi pratici, essa può tranquillamente variare in vista dell’obiettivo necessario.


La necessità di contraddirsi e dimostrarsi sbagliati come tecnica di rigidità della conoscenza

Nell’atteggiamento e nello sviluppo di una rete di comprensione di un qualsiasi ente da parte un osservatore, oltre agli strumenti che può utilizzare (ansatz e il perché) per accrescere i pensieri che la costituiscono e oltre alla sperimentazione della veridicità dell'infomrazione utilizzata deve assicurare la rigidità della sua rete di comprensione dell’ente.


Durante il compimento dell’obiettivo finale, cioè, la costruzione della rete di comprensione completa sull’ente, l’osservatore si deve porre degli obiettivi intermedi per giungerci più facilmente.


L’obiettivo intermedio di una qualsiasi rete durante la sua costruzione è di contraddirsi e dimostrarsi sbagliati. Cioè, durante la costruzione, si deve cercare di attivamente distruggerla.


Per quanto questo approccio possa sembrare completamente folle inizialmente siccome sarebbe antiproduttivo cercare di distruggere il progresso fatto durante la comprensione di un ente, il genio sta proprio li.

Nel caso l’osservatore riesca a contraddirsi, ha trovato un pensiero viabile che non riesce a legarsi alla propria rete oppure ha trovato che un pezzo di informazione al suo interno la contraddice, rendendola inutile. Quando ciò accade, la rete è forzata ad evolversi in vista della contraddizione e, siccome è stato l’osservatore a contraddirsi, sa esattamente che cosa c’è che non va.


Sapersi dimostrare sbagliati dimostra di aver compreso la propria comprensione tale da poterla riforgiare in vista di quello che si sa di già. L’osservatore deve dunque sempre porsi in una situazione difficile e cercare di sottoporre la rete a diversi test che vanno a sperimentare le capacità delle informazioni oppure nella mancanza di queste, accrescerne di nuove.


Inoltre la ricerca attiva di contraddirsi apre porte a nuove informazioni e forza l’osservatore a guardare in modo inverso la propria conoscenza in modo che la tenti di distruggere.

Fallire nel contraddirsi vuole dire d’aver conseguito nella comprensione, e qua, la contraddizione è ricercata nella misura in cui è il motore che spinge l’evoluzione della propria comprensione.


Una rete che si deve adeguare ad un osservatore che la perturba con nuove informazioni destabilizzanti provoca l’evoluzione, che a sua volta provoca una nuova struttura, che in sé riporta ad una nuova dinamica di ottimizzazione e organizzazione mentale.


Infine, contraddirsi è come chiedersi una domanda difficile (a causa della scarsa rete di comprensione sull’ente) e darsi una risposta, studiando e riportando la nuova dinamica nella nostra rete di comprensione.


Questa necessità richiede anche una forte maturità e modestia per accettarsi nell’errore e usarlo come uno strumento di super-apprendimento.


La tecnica dello “Sturm und drang” contro la propria conoscenza grazie alla creazione di una rete di anti-conoscenza

Vi è una tecnica per riuscire a mantenere il dubbio cartesiano e grazie ad esso proporre delle contraddizioni costruttive.


Per tenere conto delle osservazioni già precedentemente fatte e progredire con la propria tecnica distruttiva per meglio comprendere, si può costruire una rete di anti-comprensione.


Questa rete si costruisce e funziona uguale alla precedente ma il suo ente ed obiettivo è di contraddire e provare a dimostrare il contrario di quello che è stato affermato nella rete di comprensione a cui si oppone.


Perché questo si possa fare, le tecniche già precedentemente fatte sono ora usate per “attaccare” quello che si è costruito, specificamente il principio dell'ansatz.


L’ansatz diventa lo strumento di costruzione principale in questa rete siccome saranno le ipotesi per contraddire che porteranno avanti la rete e il perché servirà a rafforzare questi “attacchi”.


La parte più importante da notare di questa costruzione è che il pensiero cardine è sempre l’ansatz d’attacco che si utilizzerà contro la rete in questione.


In caso di contraddizione ed evoluzione della rete attaccata, l’anti-rete diventa temporaneamente obsoleta rispetto alla sua natura contraddittoria e si converte come prova ulteriore alla rete principale.


Ciò non vuol dire che espandendola oppure creando una anti-rete a questa rete convertita che non possa ritornare alla natura di attacco iniziale. Questo processo si rivela essere incrementale poiché alla contraddizione aggiuntiva ad una rete che è già stata contraddetta e ha ora delle reti convertite tutte queste si contraddicono e necessitano di essere ricostruite in funzione della nuova contraddizione.


Infine, per evitare che sia troppo fragile e impegnativa la contraddizione ed evolutiva ad una rete maggiore, le anti-reti convertite possono essere tradotte come pensieri che si legano al pensiero cardine. L’effetto di contraddizione che si propaga a tutte le parti della rete di comprensione accade lo stesso ma ora si trovano tutte nella stessa rete ed inoltre il legame tra queste diventa molto più semplice.


Consigli pratici sulla rapidità del processo ed ultime aggiunte

Giungiamo dunque alla fine del sistema di manipolazione e delle tecniche di studio. Prima di chiudere questo documento, vorrei prima aggiungere delle considerazioni finali che sono ancora di natura tecnica e utile all’esecuzione di questo sistema.


Si nota che, per la peculiarità e la granularità delle tecniche e le considerazioni da tenere in mente durante questo processo, la sua esecuzione apparenta essere lenta e che dunque si vada a contraddire da solo in quanto il suo obiettivo era quello di proporre la più chiara comprensione nel minor tempo possibile.


Mi sono personalmente imbattuto io in questo problema durante l’intero processo di teorizzazione e di pratica di questo sistema, e, per quanto non lo possa sembrare, il processo, quando fatto in modo consapevole, si rivela essere molto più rapido dello studio mnemonico.


Ci sono delle ragioni per questo: la prima perché con una classificazione data dal processo dialogico dello studio, l’osservatore è in grado di comprendere esattamente dove deve agire e con le condizioni di comprensione, ha un obiettivo chiaro che, una volta raggiunto, si rivela essere fondamentale per la piena comprensione dell’ente.


C’è anche da dire che il processo più pratico per sessioni di studio più quotidiane, il processo della creazione della rete accade in modo automatico, siccome seguendo il principio dell’ansatz, le diverse regole della costruzione del pensiero logico, tenendo in conto della dimensionalità dei pensieri e navigando lo scibile “immediato” con il perché il processo accade naturalmente, siccome ciascuno dipende uno dall’altro.


La visualizzazione della mappa mentale non è per nulla necessaria per eseguire una sessione di studio che riporti questo livello di comprensione, lo si farebbe solo dinanzi a studi complessi laddove l’ordine dei pensieri è fondamentale oppure per auto-analizzarsi e capire laddove ci sia un problema di comprensione o parte soggettivamente complessa per l’osservatore.


Lo vorrei ribadire, ma credo che attraverso le spiegazioni della geometria del pensiero sia già emerso; pensare è navigare attraverso una figura delimitata dalle proprie necessità riguardo al proprio obiettivo gnoseologico rispetto ad un ente. Studiare è, rispettivamente, stabilire dei “lati” a questa figura inimmaginabilmente complessa.

Lo studio più pratico allora si tratta di molte semplificazioni e molto accade naturalmente senza dover intervenire, ma tutto questo a patto che la pratica accada in modo che il resto possa essere indotto.


Con il tempo, studiando in questo modo e sfidandosi di prendere il controllo pieno del proprio modo di pensare verrà sempre più naturale e più rapido. Vi è, comunque, anche un modo ulteriore di velocizzare il processo attraverso lo sfruttamento di un’altra funzione del nostro cervello: la percezione del tempo e la sua natura relativa.


Ho affrontato questa questione in questo documento per gli interessati.



La nostra proposta

In questo sistema, ogni concetto ha una sua posizione: le idee fondamentali sono il fusto, i teoremi i rami, gli esempi le foglie. I collegamenti tra i concetti non sono linee dritte, ma sentieri che vanno percorsi, osservati, compresi. Ogni volta che impariamo qualcosa di nuovo, chiediamoci: da dove nasce questa idea? Dove porta? Che cosa cambia nella mia visione del mondo?


Strumenti come Obsidian ci permettono di tracciare queste mappe mentali con precisione, di collegare pensieri, di visualizzare percorsi. Ma la vera rivoluzione non sta nello strumento: sta nell'intenzione. Prendere appunti non deve essere un gesto automatico, ma un atto creativo. Non scriviamo per ricordare, ma per pensare. Non per tenere tutto nella pagina, ma per costruire ciò che resta nella mente.


Questa è la nostra proposta. Non una dottrina, ma un invito. Non un metodo, ma una mentalità. "Ipse dixit" non vale più: ciò che conta ora è "ego intellexi". Ho capito. Ho ricostruito. Ho pensato. E con questo, ho davvero imparato.


Tutto ciò, però, non rimane solo teoria o bella retorica: questa proposta vive già in una pratica concreta. Il metodo che proponiamo parte dalla strutturazione concettuale dell’informazione, in forma visiva e logica. Una mappa mentale, simile a un albero evolutivo del pensiero, in cui il cardine rappresenta l’intuizione principale, da cui si dipanano altri pensieri in altre dimensionalità ovvero esempi, applicazioni o corollari.


Inoltre, non ci limitiamo a costruire: stressiamo ciò che costruiamo. Introduciamo ciò che chiamiamo domande d’attrito: “Perché non è così?”, “Cosa succederebbe se invertissimo causa ed effetto?”, “Esistono controesempi?”. Creiamo la nostra stessa immagine contraria per dimostrare che abbiamo capito quali sono i problemi e la risolviamo tale che diventi prova della nostra stessa conoscenza.


Il punto di utilizzare questa tecnica risulta essere quella di ritrovare una forma di raggruppare il pensiero che sia strutturato in forma corretta, che sia facilmente costruibile, modificabile ma soprattutto che resista alla demolizione di sé stessa. Questa struttura è costruita con l’ipotesi che sarà necessario essere modificata dopo, poiché è molto raro che dinanzi allo studio questa riesca a resistere.


Questa pratica non solo fortifica l’apprendimento, ma ne verifica la reale profondità. Non vogliamo ricordare per sopravvivere al compito in classe. Vogliamo capire per costruire, distruggere, ricostruire — e infine, pensare.


Non imponiamo un metodo: proponiamo un sistema, costruito con pensiero, testato con logica e offerto con umiltà.




Comentarios


Abbonati alla nostra newsletter!

bottom of page