Emma Cassarà IV LICEO
“Di conseguenza io vivevo sapendo di avere i jeans, mentre di solito si vive dimenticando di avere mutande o pantaloni. Io vivevo per i miei blue jeans, e di conseguenza adottavo il portamento esteriore di uno che porta i jeans.”
Il 12 agosto del 1976, Umberto Eco pubblica sul Corriere della Sera un articolo dedicato al suo “pensiero lombare”, l’autore esprime attraverso i suoi sensi l’emozione di indossare, non dei pantaloni qualunque ma, il pantalone: il jeans.
I jeans, contrariamente a ciò che raccontano molte leggende, hanno una storia molto europea. La tela di cotone dei jeans viene definita denim dalla sua città francese d’origine Nîmes (= de Nîmes). Questa tela viaggia fino in Italia dove viene lavorato per la prima volta il suo colore blu iconico: il blu di Genova. Una volta traversato il Pacifico con l’onda delle emigrazioni degli italiani, il jeans vive un vero e proprio “American Dream”. Il capo diventa una star e porta con sé un frammento, anche se deformato, della penisola italiana: il nome blue jeans (blue of Gênes). Nel 1873 l’imprenditore americano Levi Strauss e il sarto Jacob Davis confezionano il modello più iconico e più portato della storia: il jeans Levis.
“Gli abiti sono artifici semiotici ovvero macchine per comunicare.”
Il jeans è un elemento della comunicazione non verbale. Attraverso i secoli la tela di denim diventa un oggetto simbolico in continua trasformazione. Ieri rappresentava un simbolo di emancipazione, porta voce di rivolte e sfida contro la società. Negli anni ‘70 e ‘80 il movimento punk popolarizza i jeans bucati che rimandavano a una rivolta delle idee politiche consevatrici e sociali dell’Inghilterra dell’epoca.
Oggi viene accusato, per il suo metodo di produzione, come un importante inquinante per il nostro pianeta. Infatti l’industria del denim utilizza circa 50.000 tonnellate di indaco sintetico all'anno, insieme a oltre 84.000 tonnellate di idrosolfito di sodio come agente riducente. Queste sostanze chimiche sono tossiche e inquinano anche l'ambiente vicino alle fabbriche.
Umberto Eco avverte indossando i jeans un sentimento di protezione e sente “intorno alla seconda metà del suo corpo un’armatura”. Inizialmente questo capo veniva portato dai minatori americani per le sue qualità pratiche di estrema resistenza dovuta all’intrecciamento robusto. Questi pantaloni che appartenevano a una determinata classe sociale modesta con un utilizzo funzionale, oggi fanno “sentire la loro presenza” e compiono una vera e propria ascesa sociale. I jeans vengono indossati da tutte e da tutti e grazie al loro potere estetico diventano protagonisti delle sfilate di haute couture di numerose case di lusso.
“Tuttavia assaporavo dopo lungo tempo un pantalone che, anziché serrarsi alla vita, si appoggiavano alle anche, dato che è proprio del blue-jeans far pressione sula regione lombo-sacrale e sostenersi non per sospensione ma per aderenza”
Eco trasforma una semplice azione di indossare dei pantaloni in una reale riflessione filosofica che sfoggia nella psicologia dei vestiti. L’autore afferma che portare i jeans cambi il suo portamento perché impongono di assumere “un contegno” esteriore. Un linguaggio dei vestiti che gli uomini nel corso della storia hanno parlato ben poco. Infatti nell’articolo, l’autore considera che le donne siano state sin da piccole abituate à indossare “armature” (reggiseni, corsetti, giarrettiere e tacchi a spillo) che le costringono ad acquisire uno specifico portamento e atteggiamento.
«Blue jeans, white shirt Walked into the room, you know you made my eyes burn…»
- Lana de Rey
Questo capo è ormai in tutti gli armadi per la sua qualità di essere indémodable. Ora conosciamo il suo passato ribelle, il suo presente oscuro e tocca a noi ad indossarlo in un futuro più ecosostenibile.
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