di Alice Pacchiotti - IV Liceo
L’uomo e la natura, la relazione tra vita umana e il mondo che la circonda, il modo di abitare questo mondo, che di decennio in decennio diventa sempre più violento e distruttivo.
Forse nessun altro scrittore del secondo Novecento come Italo Calvino ha sentito con tanta intensità il dramma di questo rapporto in crisi, di questo patto da noi infranto verso il pianeta a cui apparteniamo.
Anche se ci ha lasciato nel 1985, prima che termini come cambiamento climatico, esaurimento delle risorse diventassero parte del linguaggio quotidiano, Calvino era ben consapevole della frattura tra natura e uomo che si stava consumando a causa dei comportamenti di quest’ultimo.
Tale consapevolezza emerge in particolare, tra le opere di Calvino, ne Il barone rampante che rappresenta pienamente la sensibilità dell’autore nei confronti delle tematiche ambientaliste.
Il barone rampante ci parla dall’alto di una foresta immaginaria, la tenuta di Ombrosa in Liguria, e lo fa da un altro tempo, questa volta reale, il Settecento dei Lumi e di Napoleone. Italo Calvino non a caso sceglie il Settecento come periodo in cui ambientare il suo «universo di ninfa»: come afferma Umberto Eco in un estratto del suo libro Il Settecento pubblicato ne L’Espresso il 5 novembre 2022, «senza dubbio, nel Settecento si verificano alcuni fenomeni e si creano dei modi di pensare e di vivere in cui è facile riconoscere noi stessi e trovare la radice di molti nostri problemi attuali».
Quando comincia la storia, il 15 giugno 1767, il territorio era ricco di vegetazione, ma già si trovava in una situazione di declino («s'è cominciato quando vennero i francesi a tagliar boschi come fossero prati che si falciano tutti gli anni e poi ricrescono. Non sono ricresciuti») per poi, come viene affermato nella conclusione del libro, sparire definitivamente: «Ogni tanto scrivendo m’interrompo e vado alla finestra. Il cielo è vuoto, e a noi vecchi d’Ombrosa, abituati a vivere sotto quelle verdi cupole, fa male agli occhi guardarlo. Si direbbe che gli alberi non hanno retto, dopo che mio fratello se n’è andato, o che gli uomini sono stati presi dalla furia della scure».
Dal frassino al pino, il rampollo Cosimo della nobile famiglia settecentesca vive per duecentosessantatré pagine una vita intera a cavalcioni degli alberi: si innamora di Viola, diventa popolare fra gli abitanti delle terre di Rondò, fonda e mantiene società di soccorso per la prevenzione e lo spegnimento degli incendi, e quando va a caccia insieme al suo cane bassotto Ottimo Massimo sta bene attento a non provocare danni.
La cura degli alberi è per lui un progetto politico: la cosa pubblica appartiene a tutti i viventi, senza distinzioni di genere, età, e soprattutto di specie. Come afferma Serenella Iovino nell’articolo Il sapere degli alberi per Italo Calvino su la Repubblica dell’8 gennaio 2022, «la natura di Cosimo (e di Calvino) non è una cosa muta. Nel Barone rampante la sentiamo parlare, fischiare, gracchiare, muggire, come un unico grande linguaggio: il linguaggio del bosco». Di questo linguaggio Cosimo non si fa solo interprete ma anche e soprattutto parlante: lo comprende e lo pratica.
Quanto mondo c’è nelle pagine di Calvino? Tantissimo, sin dall’inizio. E non è solo un mondo immaginario, ma è anche un mondo che attraverso di sé ci fa vedere il nostro mondo, con tutte le dinamiche che oggi riconosciamo nei nostri paesaggi, nelle nostre città, nei rapporti che abbiamo con gli altri animali, o con gli animali che noi stessi siamo.
Questo mondo, che noi chiamiamo ambiente, in Calvino non è uno fra i temi: è il tema. Leggere Il barone rampante oggi, a cent’anni dalla nascita del suo autore, non ci dà solo modo di seguire questo «filo di inchiostro» ma anche di raccordarlo con tutti i fili del nostro presente.
Sono certa che oggi Cosimo se non fosse salito sulla «mongolfiera», scambierebbe idee con Greta Thunberg o con gli attivisti per l’ambiente sulla potenza salvifica della natura.
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